Catechesi
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"L’albero della vita"
Mediazione catechistica del Piano Pastorale 2017-2018: “Io sono il Pastore bello. La bellezza della vita” a cura dall'ufficio catechistico diocesano
1.Introduzione
Il Piano Pastorale (PP) di quest’anno vuole farci entrare nel mistero della vita cui il Pastore bello conduce le sue pecore, scoprendo che la vita è Lui stesso, lui pascolo di vita con il suo corpo donato che si fa pane; da lui stesso, dal suo cuore trafitto, sgorga la sorgente dell’acqua di salvezza cui sono dissetate le pecorelle spirituali, fonte di vita immortale che fa rinascere quanti se ne abbeverano; ed è dalla sua vita di risorto che promana il Soffio vivificante, che rende attive le energie di vita del credente per consacrarlo a vivere e celebrare la vita come Cristo, ed in Cristo. I sacramenti della Iniziazione Cristiana, che noi siamo chiamati a far conoscere ai nostri ragazzi, conducendoli al loro compimento, sono dunque i sacramenti in cui la vita stessa di Gesù si imprime nel cristiano; con il compimento della Iniziazione il credente è conformato a Gesù, figlio del Padre, pieno di Spirito Santo, che dona la sua vita nella comunione fraterna. Scopo della Iniziazione Cristiana è dunque vivere, come dono e grazia accolto con impegno e disponibilità, la vita stessa del Signore Gesù, al punto da poter dire con Paolo “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal2,20). Questo ci interpella profondamente nel nostro ministero di catechisti: non siamo infatti chiamati a far acquisire una preparazione culturale sulla fede, compito dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola, ma una esperienza di vita, poiché conduciamo i ragazzi ad accogliere la vita di Gesù, ed accogliere la vita significa vivere. Tuttavia, quando si sentono queste riflessioni, l’idea corre subito alla vita delle opere e delle azioni, e se non ci concepiamo come professori di saperi, ci vediamo come maestri morali; i grandi filosofi dell’antichità si percepivano in questo modo, pensando che la filosofia fosse l’arte di saper vivere e saper morire, perciò le conoscenze teoriche erano al servizio dell’agire, ne indicavano l’orizzonte, il modo e la forma. Ma noi non siamo filosofi, almeno non in quel senso, perciò non vogliamo sentirci maestri del buon vivere. Forse potremmo far nostre ancora alcune parole di Paolo: “Potete avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo” (1Cor 4,15). Certo, non pretendiamo di accogliere queste frasi con l’intensità teologica con cui uscirono dalla penna dell’Apostolo, ma per quanto ci riguarda assumiamo la figura della paternità (e della maternità sottintesa) per ricordare a noi stessi che si genera alla vita solo vivendo, che l’esperienza di comunicare la vita è essa stessa vita, anzi uno dei momenti più alti ed intensi della vita personale, in cui l’essere fatti di relazione e per le relazione tocca un punto apicale. Ma di nuovo dobbiamo ammonirci a non pensare la vita come azione soltanto; saremmo solo dei pragmatici, degli idolatri dell’opera! La vita, prima di tutto, è semplicemente vita; così la vita di grazia è originariamente grazia, cioè partecipazione alla vita divina in Cristo nostra Vita. Allora il nostro ministero di catechisti ci domanda innanzitutto della comunione profonda, non ho paura di dire mistica, con il Signore Gesù, come ci ricordava Papa Francesco nell’incontro con i catechisti in occasione dell’Anno della Fede. Il pedagogo, figura in cui Paolo non si riconosce, era un servo incaricato dello studio dei fanciulli delle nobili famiglie, con il compito di condurlo dai maestri e farli applicare allo studio anche con la forza, fino alle percosse, se necessario. Talvolta noi rischiamo di diventare “pedagoghi”, armati di fruste invisibili che ormai peraltro neanche scalfiscono più le schiene ben corazzate dei nostri duri allievi. Essere padri, e madri, nell’essere catechisti, significa fare una esperienza vivente della vita di Gesù, ascoltando con i nostri ragazzi il Signore che ci parla come ad amici, pregando con loro il Dio compassionevole nel dialogo amicale che egli ci concede di intrattenere con Lui. Così l’aspetto della conoscenza intellettuale e della esortazione morale ad una vita buona non è estraneo alla catechesi, ma si propone come espressione di quella vita condivisa con Gesù che è Verità che illumina le menti e Via che conduce nel giusto comportamento da figli, poiché egli è la Vita vivente in noi. Questa consapevolezza si esprime anche in un atteggiamento molto concreto; è triste, e non educativo, vedere i catechisti che fanno pregare i ragazzi, e non pregano con loro! Che li fanno mettere a cerchio attorno all’altare per esprimere che siamo riuniti attorno a Gesù e loro sono in gruppo, da un'altra parte, a fare la regia dell’evento! Che invitano i fanciulli a compiere un gesto santo, baciare un’icona, segnarsi con l’acqua benedetta…, e loro se ne astengono perché è per i bambini……… Le celebrazioni sono momenti di vita in cui comunichiamo alla grazia di Cristo sempre vivo per intercedere e benedire il Padre: viviamole! L’incontro di catechismo è un momento in cui la Parola vivente parla: ascoltiamola!
2. Un’icona: l’albero della vita.
2.1Alla ricerca dell’albero della vita, guidati dalla Bibbia.
Se è vero che le immagini aiutano i ragazzi, e non solo loro, a recepire e custodire i contenuti, una immagine che potrebbe guidarci in questo anno pastorale che ci interpella sulla vita è quella dell’albero. L’albero è un organismo vivente, che riceve vita da un altro, il terreno con gli umori che contiene, in cui affonda le sue radici, e ricevendo quella vita, e vivendo, produce esso stesso vita, in forme diverse, nelle sue foglie, nei suoi fiori, nei suoi frutti.
Non meraviglia dunque che presso tutte le culture l’albero è stato associato alla vita, come metafora di essa, come reale portatore di vita: in molte culture e religioni si narra di un albero della vita i cui frutti danno l’immortalità. Inoltre l’albero, che nasce dalla terra ma si protende verso il cielo, è un forte indicatore assiale; mostra che la vita è tensione verso l’alto, addita quasi un percorso dalla terra al cielo che si compie vivendo e crescendo.
Anche la Bibbia, parola di Dio detta nella lingua degli uomini e delle loro culture, ha fatto propria questa immagine fortemente evocativa; dall’inizio di essa, nel libro della Genesi, fino alla fine nel libro dell’Apocalisse svetta l’albero della vita (cf Gn 2,8; Ap 22,2).
In questa mediazione, vi propongo di usare proprio l’immagine dell’albero della vita per introdurre i nostri ragazzi al tema dell’anno pastorale; ma per poterne usare proficuamente è necessario innanzitutto comprendere bene il messaggio biblico sull’albero della vita, illuminato poi dalla lettura mistica di questa potente metafora nei Padri della Chiesa e negli autori spirituali.
Nel libro della Genesi si narra come Dio, dopo aver creato l’uomo, creò per lui un giardino dove egli potesse trovare ciò che gli era necessario per vivere, un giardino ricco di alberi di frutti di ogni specie, perché la sua creatura potesse godere di un nutrimento ricco e gustoso. In mezzo al giardino fece germogliare l’albero della vita, quasi sintesi e compimento di tutti gli altri alberi; se infatti il frutto di ogni albero rendeva saporosa la vita, questo avrebbe dato e conservato la vita stessa, che poi potesse esprimersi nella quotidiana concretezza donata dal mangiare i frutti del giardino. Inoltre fece germogliare anche l’albero della conoscenza del bene e del male, unico albero di cui però Dio proibì all’uomo di cibarsi (cf Gn 2, 9.16). Il racconto ci parla dunque della premura paterna di Dio per la sua creatura; tutti gli alberi germogliano da quel suolo da cui Dio ha tratto l’uomo (Gn 2, 7.9), il loro germogliare e fiorire e fare frutti belli e buoni, cioè che appagano tutti i sensi del vivente, è come un continuare l’opera creatrice originaria. La terra, che ha dato carne ad Adamo, continua a sostenerlo con le sue energie. L’albero della vita in mezzo al giardino prolunga l’atto creatore di Dio che fa dell’uomo un essere vivente, che diviene e cresce, nutrito dalla bellezza del vedere le opere belle di Dio e dal gustarne la bontà, sperimentando che tutto in lui ed attorno a lui è fatto per la vita . Ma da quel suolo germoglia anche l’albero della conoscenza del bene e del male; anch’esso prolunga l’atto creatore di Dio in quanto è oggetto del comandamento, cioè del parlare di Dio all’uomo. E’ la prima volta che Dio parla alla sua creatura (Gn 2, 16), per indicargli il senso delle cose che vede e gusta. La prima parola dice il dono: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino”, la seconda è di premuroso e paterno avvertimento: “ma dell’albero della conoscenza del bene e del male tu non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente morirai”. Dio parla alla sua creatura, e per parlare emette ancora il soffio, quello stesso che aveva alitato facendolo emergere come essere vivente. L’uomo, fatto di terra, diventa vivente ricevendo il soffio di Dio, quel soffio che spira sempre verso di lui nel parlare paterno ed amicale di Dio. Con il rivolgere la parola Dio crea relazione con l’uomo, lo innalza alla sua altezza, lo fa interlocutore di un dialogo di vita. Per questo il salmista potrà dire: “Se tu non mi parli io sono come chi scende nella fossa” (Sal 28, 1). Ma rimane un mistero la collocazione di questo albero affascinante e terribile; a leggere Gn 2,7 sembra che anche l’albero della conoscenza del bene e del male sia in mezzo al giardino, come l’albero della vita. Si tratta dello stesso albero? La tradizione ebraica oscilla tra l’idea che si tratti di un albero con unica radice e due tronchi diversi, oppure racconta che l’albero della conoscenza ha foglie e rami intrecciati che coprono la vista dell’albero della vita, o, al contrario, è questo ad essere così grande che nasconde quello, così da sembrare un solo albero. Al di là del racconto del midrash, il senso profondo che si vuole trasmettere è che la vita avviene nella conoscenza, che, come ben sappiamo, per la Scrittura è esperienza. Non si vive se non facendo continue esperienze, gustando i frutti innumerevoli del giardino di Dio. Il primo comando di Dio non è una proibizione, ma un invito a godere. Di tutti gli alberi, i cui frutti sono belli e buoni, cioè appagano i sensi esteriori ed interiori, l’uomo può e deve mangiare: questa è la vita donata da Dio. Cosa non deve allora prendere? L’esperienza del male, la conoscenza del bene come perduto e del male come sperimentato. Per questo mangiando dell’albero della conoscenza si muore, perché si fa l’esperienza del male come privazione di bene, fino alla privazione del bene di ogni bene che è la vita stessa. Il frutto proibito infatti appare ad Eva tentata come “buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare conoscenza” (Gn 3,6) esattamente come è davvero ogni altro frutto del giardino “gradito alla vista e buono da mangiare” (Gn 2,9). Eva non vede più l’albero della vita, da cui può mangiare, ma vede solo il frutto proibito. Al centro del suo giardino non coglie più il fluire abbondante della vita, ma il divieto, la negazione ed il limite. “Dell’albero che sta al centro del giardino Dio ha detto: non dovete mangiarne” (Gn 3,2), ma al centro vi era l’albero della vita, per niente proibito, anzi donato. Venendo meno l’ascolto di Dio, la fiducia e la relazione con lui, il mondo si capovolge: Eva, tentata dall’acquistare conoscenza, non conosce più niente, non sa più neanche di quale albero parla. Conoscerà solo la sua nudità ed il bene come perduto, ed il male come sperimentato nel lavoro alienante e frustrante, nei rapporti schiavizzanti e nel dare la vita solo tra dolore e lacrime, ed infine nella morte. Adesso sì che non potranno più gustare l’albero della vita, perché non hanno più una vita piena. Il prolungarsi dei giorni significa il ripetersi dell’esperienza della perdita, e più avanzano gli anni più si gusta la mancanza, l’impotenza ed il fallimento. Misericordiosa è dunque la morte che riconduce al suolo da cui Dio può ricreare per una vita nuova, una vita di nuovo piena, in cui sarà possibile gustare ancora l’albero della vita, come annuncia con gioiosa profezia il capitolo finale dell’Apocalisse (Ap 22, 2). Ma per giungere a mangiare ancora il frutto dell’albero della vita bisogna affrontare i cherubini e la spada di fuoco guizzante che ne custodiscono l’accesso (cf Gn 3, 24). La tradizione midrashica ricorda che Dio chiese a Mosè di raffigurare proprio i cherubini sull’Arca dell’Alleanza, che custodiva le tavole della Legge (Es 25, 16ss.); dunque passare per via custodita dai cherubini significa affrontare lo studio, la meditazione e la pratica della Torah, della Legge di Dio che è fonte di vita, anzi essa stessa è vita (cf Dt 30,16; Sal 119) , tanto che chi la medita e la pratica diventa egli stesso come un albero verdeggiante e fruttuoso che affonda le sue radici nel fiume della vita divina (Sal 1), di cui la Legge è espressione, manifestazione e comunione. Ma, a causa del peccato, l’osservanza della Legge chiede una lotta, un duro combattimento; la parola di Dio è spada tagliente che trafigge nell’intimo, separa da se stessi, fa morire il vecchio io, e separa dal mondo esponendo alla persecuzione. Solo chi avrà vissuto fino in fondo il dramma umano, il dramma della lotta interiore ed esteriore, potrà tornare all’albero della vita, perché avrà finito di ingoiare il frutto della conoscenza del bene e del male, cioè avrà gustato il bene che viene da Dio e tutto il male che nasce dal peccato come angoscia interiore, male subito e morte. Cristo vincerà il peccato sulla croce, dove gusta fino in fondo il frutto del bene, compiuto totalmente nell’amore assoluto al Padre ed ai fratelli fino alla consumazione di sé, e del male, subito come sofferenza fisica, morale ed anche spirituale, provando l’ abbandono interiore del peccatore sperimentato nella sua coscienza purissima ed innocente di Figlio sempre rivolto al Padre. Così anche a chi è partecipe della vittoria di Cristo, passando per sua Passione, “al vincitore sarà dato di mangiare dell’albero della vita, che sta nel Paradiso di Dio” (cf Ap 2,7). E’ significativamente questa la prima promessa del Cristo trafitto e glorioso che parla all’inizio dell’Apocalisse, promettendo il frutto dell’albero della vita al vincitore, in conclusione della lettera all’angelo della chiesa di Efeso, elogiata per la fatica e la perseveranza nel sopportare il peso della vita e la persecuzione per il nome di Gesù (cf Ap 2,2-3). Nel contesto di questa prima lettera delle sette missive che aprono l’Apocalisse si dice che l’albero della vita si trova nel Paradiso di Dio, chiaro riferimento al racconto dei primi capitoli della Genesi. Ma quando finalmente giungeremo ai piedi di questo albero tanto desiderato, lo troveremo collocato al centro della città di Dio, la nuova Gerusalemme, precisamente “in mezzo alla piazza della città” (cf Ap 22,2). La piazza è il luogo dell’incontro dei cittadini, il punto culminante della comunione, di cui tutta la città santa, la celeste Gerusalemme con le sue porte e le sue mura, è simbolo. Dunque il Paradiso/giardino, luogo dell’intima comunione con Dio, ora e diventato la città: Dio si incontra nella comunione fraterna, il luogo in cui attingere il frutto dell’albero di vita è la Chiesa gloriosa, resa santa per la presenza costante e piena del suo Signore. Infatti quell’albero glorioso cresce misteriosamente in due luoghi diversi, al di là ed al di qua del fiume. Com’è possibile che un unico albero cresca in due posti diversi? E’ chiaro che le immagini dell’Apocalisse sono visioni intellettuali, non raffigurabili, ma portatrici di senso. Gli autori antichi, riflettendo su questa provocazione del testo alla ricerca del senso nascosto, hanno detto che l’unico albero di vita, che svetta nel mondo futuro, cresce anche in questa vita terrena, perché tramite i sacramenti celebrati e ricevuti nella Chiesa ci è già possibile gustare quella vita divina che sperimenteremo in pienezza al di là della morte. La vita sacramentale della Chiesa, potremmo quasi dire, è il ponte gettato sul fiume della morte, attraverso cui possiamo già giungere alla piazza della celeste Gerusalemme e cogliere il frutto della vita, che ci resuscita nel Battesimo e nutre la vita nuova della grazia con l’Eucarestia, mentre le foglie di questo albero, foglie di misericordia come quelle con cui Dio vestì la vergognosa nudità dei Progenitori dopo il peccato originale, guarisce tutte le malattie dell’anima con il sacramento della Riconciliazione (cf Ap 22,2>Ez 47,12).La vita che il cristiano sperimenta nella Chiesa è il reale inizio e l’anticipo della vita che godrà per tutta l’eternità, perché questa vita è sempre e soltanto Cristo Signore, venuto nella carne, morto e risorto per comunicare agli uomini la sua vita immortale.
2.2Figure dell’albero nella vita nei Padri della Chiesa e negli autori spirituali.
Se Gesù solo è la Vita, ed il comunicatore della vita, è Lui il frutto dell’albero della vita che bisogna mangiare per vivere, e grazie alla sua opera di redenzione quel frutto non è più proibito, ma anzi donato. Se all’origine c’è il comando di Dio: “non mangerai di questo frutto, perché se ne mangiassi moriresti”, ora c’è invece l’invito forte “prendete e mangiatene….chi mangia questo pane ha la vita eterna…il pane è la mia carne” (cf Mt 26, 26; Gv 6, 51). Se Gesù è il frutto della vita, chi lo porta sarà l’albero. Due figure sono collegate principalmente nella tradizione cristiana all’albero della vita: Maria e la croce . Quando la Madre del Signore si reca in visita da Elisabetta, portando in sé il Verbo della vita fatto carne, questa la accogli benedicendola e benedicendo “il frutto benedetto del suo grembo” (cf Lc 1,42). Maria è dunque il nuovo albero della vita, germogliato dal suolo vergine della pura grazia di Dio, per portare nel mondo delle spine e dei rovi (cf Gn 3,18) il frutto benedetto della vita; all’uomo, che con sudore mangia un pane di tribolazione per tornare alla polvere (cf Gn 3,19) ora, senza opera alcuna di uomo (cf Mt 1,25), è dato gratuitamente il frutto mangiando il quale si vive per sempre . Così canta una antifona della Chiesa bizantina nei giorni che precedono il Natale: “Preparati, Betlemme: si è aperto per tutti l’Eden. Preparati, Efrata, perché dalla Vergine è fiorito l’albero della vita nella grotta; davvero il suo grembo è divenuto spirituale paradiso in cui si trova la pianta divina; mangiandone vivremo, non moriremo come Adamo. Cristo nasce per rialzare l’immagine, un tempo caduta” . Ma questo frutto, germinato dall’albero vivo che è Maria, piena di grazia e totalmente affidata all’opera della grazia in obbedienza e fedeltà, non giungerà a maturazione se non quando si arrosserà della maturità dell’amore, consegnando la sua vita sulla croce. E’ dalla croce che Gesù sembra dire: “Questo è il mio corpo offerto per voi….prendete e mangiate”. Dunque anche la croce può essere guardata come albero della vita, che porta ed offre il frutto maturo, pronto ad essere consumato dagli affamati di vita. I Padri della Chiesa più volte si compiacciono di sottolineare il richiamo tra l’albero delle origini e l’albero della croce: come dal primo venne la rovina, da questo viene la salvezza; come il frutto che pendeva da quell’albero diede la morte, il frutto che pende da questo dona la vita. Un antico inno alla croce gloriosa canta in essa le meraviglie dell’albero della vita contemplato in Ap 22: “La Croce Gloriosa del Signore Risorto è l'albero della mia salvezza; di esso mi nutro, di esso mi diletto, nelle sue radici cresco, nei suoi rami mi distendo. La sua rugiada mi rallegra, la sua brezza mi feconda, alla sua ombra ho posto la mia tenda. Nella fame alimento, nella sete fontana, nella nudità mio vestimento. Angusto sentiero, mia strada stretta, scala di Giacobbe, letto di amore dove ci ha sposato il Signore. Nel timore difesa, nell'inciampo sostegno, nella vittoria corona, nella lotta tu sei il premio. Albero di vita eterna, pilastro dell'universo, ossatura della terra, la tua cima tocca il cielo e nelle tue braccia aperte brilla l'amore di Dio". Così nell’inno che la liturgia propone per l’adorazione della croce nella celebrazione della Passione del Signore il Venerdì santo, si canta: “Crux fidelis, inter omnes, arbor una nobilis, nulla talem, silva profert, flore fronde germine. Dulce lignum dulce clavo dulce pondus sustinens” . Le parole di questo inno sembrano tradursi in immagine nel mosaico dell’abside della chiesa di San Clemente, a Roma, databile intorno al XII sec. ma che riprende elementi iconografici precedenti, dove la croce appare come un albero ricco di rami e di foglie irrigato dal sangue di Cristo, pronto ad offrire rifugio e riposo; e la quieta immagine della vegetazione paradisiaca sembra quasi sublimare e trasfigurare il dolore di Maria e di Giovanni effigiati ai piedi del Crocifisso. Tra i rami dell’albero sono raffigurate scene di vita quotidiana, ad indicare che ogni azione del cristiano è vivificata dalla potenza della croce, è ormai vita nuova, che troverà compimento nell’eternità della vita immortale, di cui sono simbolo i pavoni, che pure appaiono tra le foglie dell’albero . Un particolare sviluppo dell’immagine della croce come albero della vita si trova nella tradizione francescana, grazie all’opera di san Bonaventura Lignum vitae, in cui il Dottore serafico presenta la croce come un albero che affonda le sue radici nelle origini del mondo, con la creazione ed il peccato dei primi uomini, germoglia nell’esperienza di salvezza culminante nell’incarnazione e nella Pasqua del Cristo, svetta fino al cielo additando ed aprendo la gloria eterna. Tra i rami di questo albero, cioè nella storia vivificata dal Crocifisso, fioriscono i fiori delle virtù e maturano i frutti delle opere buone dei santi. Una immagine visiva di questa idea la realizzò Taddeo Gaddi affrescando il refettorio dei francescani nel convento di Santa Croce a Firenze. E’ significativo che il lignum vitae raffigurato secondo la teologia di Bonaventura, trova collocata ai suoi piedi l’ultima cena, certamente per la destinazione a refettorio del luogo in cui è effigiata, ma suggerendo significativamente che la mensa condivisa è il frutto della carità che su quell’albero si è distesa; e poiché condividere il cibo significa condividere la vita, la carità fraterna è la sostanza della vita vera, è il cibo degno di uomini, come l’Eucarestia celebra e realizza, donando agli uomini il frutto di vita mangiando il quale realizzano quel destino alto di vita eterna ed in comunione con la vita di Dio Carità per cui erano stati creati. Questa intuizione si svolge poi nei riquadri che contornano il lignum vitae, in cui si raccontano episodi in cui il cibo è condiviso per amore , scene di mensa che ancora richiamano i frati che li mangiano al senso sacro del mangiare insieme come dono di vita, mangiare pane di sudore e di elemosina, due modi di affidarsi all’unica provvidenza con fiducia, gratitudine ed amore. Una scena sembra esulare da questo filone tematico; il primo riquadro presenta infatti la stigmatizzazione di san Francesco. Si potrebbe pensare che ciò sia dovuto solo alla devozione dei pii francescani verso il loro serafico fondatore, che interrompe la linea coerente del programma iconografico. In realtà la stigmatizzazione di Francesco, anche secondo l’interpretazione che ne da lo stesso san Bonaventura raccontandola, indica la sublime partecipazione del santo alla eccelsa carità del Cristo, la comunione con la sua vita crocifissa per amore, dunque ancora una icona di vita condivisa, vita attinta all’albero della croce . Ubertino da Casale, mistico francescano, strenuo difensore della letteralità della povertà dei minori, continuerà questa intuizione nel suo Arbor vitae crucifixae Jesu Christi, in cui descriverà come frutti dell’albero della croce la vita dei santi, in quanto nelle loro vite si rende presente e si realizza, nel mistero di grazia e nell’imitazione delle azioni, la vita stessa di Gesù, come illustra in maniera eminente, secondo Ubertino, l’esperienza di santità di Francesco di Assisi e dei frati veramente fedeli alla sua regola .
2.3Uso catechistico dell’immagine dell’albero della vita.
Illuminati dall’insegnamento delle Scritture sull’albero della vita, così come i Padri della Chiesa e gli autori spirituali ce lo consegnano arricchito dalle loro ricche e profonde meditazioni, possiamo ora usare con competenza, ed in molteplice modo, questa immagine nella nostra proposta catechistica sul tema della vita, secondo l’indicazione del Piano Pastorale 2017-2018. All’inizio del PP ci viene ricordato che nel vangelo di Giovanni, che presenta l’insegnamento più compiuto sulla vita in tutta la Bibbia, questa non è mai intesa in senso fisico, biologico (infatti non compare mai il sostantivo bios che denota questo significato), ma sempre in senso teologico: è vita divina, vita eterna, non tanto nel senso di una durata senza fine, ma di vita che non proviene e non si compie nell’orizzonte di questo mondo. Ed il luogo dove attingiamo la vita divina sono i sacramenti, su cui il PP pastorale si sofferma abbastanza ; anche la nostra opera catechistica accompagna i ragazzi proprio nel tempo in cui completano la loro Iniziazione Cristiana, aiutandoli anche a riscoprire l’origine di essa, cioè il Battesimo, per accoglierne e viverne tutta la grazia, resa piena nella conformazione alla vita della santissima Trinità con la celebrazione della Cresima e la partecipazione alla mensa eucaristica. Se i sacramenti sono il realizzarsi della vita divina in noi, sarà proprio in riferimento ad essi che troverà buon uso l’immagine dell’albero della vita. E’ con l’esperienza sacramentale che Dio pianta in noi, come nuovo Eden, l’albero della vita perché porti i suoi frutti. Se i sacramenti ci rendono vivi della vita stessa di Dio, noi diventiamo un albero di vita sempre piantato presso il corso d’acqua della grazia divina, che da frutto ad ogni tempo dell’esistenza (cf Sal 1) e come Maria, la piena di grazia, siamo addirittura capaci, nella nostra vita ormai ecclesiale, di offrire ad altri di poter cogliere il frutto della vita. Molteplice, dunque, è l’utilizzo di questa immagine; noi ci nutriamo del frutto della vita divenuto pane e vino eucaristici; in noi scorre la linfa vitale che produce frutti di vita nuova, i frutti dello Spirito Santo che ci è dato in dono.
Nascendo a questo mondo, Dio ci dona un’anima personale, cioè ci crea aperti alla relazione come quel primo giorno plasmò Adamo dal suolo con le narici già aperte perché egli potesse insufflare in lui l’alito di vita che lo avrebbe reso un vivente. L’anima con cui siamo creati è come un anelito,un desiderio, una potenza cui Dio avrebbe da sempre risposto se non fosse intervenuto il peccato originale ad interrompere quel flusso vitale; ma, per la grazia di Cristo, venuto nella nostra carne di peccato e caricatosi sulla croce della nostra sete fino a gridarla davanti al Padre nell’ora dell’abbandono di Dio, in virtù del Battesimo l’ostacolo del peccato di origine è tolto e Dio torna a soffiare in noi il suo soffio vivificante così da essere vivi, non solo della vita naturale ricevuta secondo la carne ma della stessa vita di Dio. Così, potremmo dire, che lo scopo ultimo del Battesimo, non è il toglimento del peccato originale; esso è piuttosto un mezzo per giungere al fine primario che è il dono della vita divina per la quale siamo figli di Dio, perché davvero abbiamo in noi, per mezzo di Gesù e nello Spirito Santo, la vita del nostro Padre celeste. Nella nostra catechesi possiamo così non insistere, senza tuttavia tacerlo, sul tema del peccato originale, tema di difficile comprensione e spiegazione anche per i teologi, per accentuare piuttosto l’annuncio gioioso che Dio Padre ci ha voluti come figli e ci dona la sua stessa vita. Lo Spirito Santo porta in noi Gesù, il Figlio di Dio, Colui che ha tutta la vita del Padre, perché noi possiamo essere figli in lui e per mezzo di lui. Noi siamo come un albero che nasce con le radici al vento; radici pronte a ricevere la vita dalla terra, ma che non l’attinge perché non vi è piantato, e, se rimanesse così, non potrebbe vivere, anzi sarebbe già morto. Ma con il Battesimo noi siamo radicati in Dio; così, piantati in lui, cominciamo a ricevere le sue energie di vita, e l’albero della nostra vita spirituale comincia a crescere, a maturare, si veste delle foglie delle virtù, da i frutti delle buone opere, ma tutto proviene dalla linfa vitale che gli scorre dentro, lo Spirito Santo, e che attinge dalla terra, cioè dal Padre, per mezzo di Gesù che morendo per noi ha vinto il peccato e ci ha messo in contatto con il Padre della vita. Potremmo dire che la tomba di Gesù è come la fossa scavata perché noi potessimo essere piantati nell’amore e nella vita del Padre; infatti siamo stati sepolti nella morte di Gesù per avere la vita nuova del Padre (cf Rm6, 3-11). Il fonte battesimale è infatti sepolcro e madre, perché uccide l’uomo vecchio e fa nascere l’uomo nuovo figlio di Dio. E questo fonte, sepolcro e madre, è pieno di acqua perché le radici assetata possano subito attingere la vita nuova di Dio, acqua della vita. Dunque anche qui, nella catechesi, più che l’acqua che lava, tema pur presente, dovremo insistere di più sull’acqua che fa vivere, da cui le radici di questo nostro albero possono attingere la vita. “Se avreste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso : ‘stràdicati e va a piantarti nel mare’, ed esso vi obbedirebbe” (Lc 17,6). La fede iniziale, l’adesione a Gesù come Salvatore e quindi l’appoggiarsi in lui, ci fa piantare le radici in Dio. Dio infatti è un mare infinito di essere. Radicati in lui siamo saldi per attingere vita, ma non immobili; siamo portati dolcemente dalle onde dolci, anche se a volte ci sembrano burrascose, di questo mare dolce ed immenso, che ci dona sempre la sua vita, vita sempre nuova ed inafferrabile, vita incircoscrivibile di un oceano senza sponde, dove è possibile vivere solo abbandonandosi a lui, lasciandosi cullare dalle sue onde come da braccia materne cariche di tenerezza, da vigorose braccia paterne che infondono sicurezza che per quanto si agitino e ci agitino, mai ci lasceranno cadere nel vuoto del nulla, del non senso e della morte. E’ più facile essere immersi nell’acqua che piantati nella terra, così Dio vuole subito, facilmente, senza nostro sforzo e gratuitamente darci la sua vita. La fatica infatti l’ha fatta tutta Gesù, con la sua dolorosa Passione; è lui che ha scavato la terra per riempirla dell’acqua di Dio, la sua tomba, ma anche il suo cuore, il suo corpo. Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo, ha preso un corpo che come il nostro era fatto di terra. Ma egli era sempre pieno della presenza, dell’amore e della vita del Padre suo. Quando hanno piantato i chiodi nelle sue mani, quando la lancia gli ha aperto il Cuore, è come se fossero stati scavati dei buchi dove noi, alberi senza vita, potessimo piantare le radici. Il suo Corpo, la sua Umanità aperta, ferita per amore, si prolunga oggi nella Chiesa. Per questo con il Battesimo siamo inseriti in Gesù, e perciò nella Chiesa, suo corpo, sua umanità sempre viva nella storia, ed inseriti in lui entriamo in contatto con la vita del Padre, la stessa che egli donò a Gesù, perciò viviamo la vita di figli nel Figlio e possiamo dire davvero a Gesù: “Tu sei la vita, tu sei la mia vita; tu hai ricevuto la vita dal Padre e la doni a me” (cf Gv 14,6; 5,21. 26; PP, p.14-15. 38-39). L’immagine dell’albero che riceve vita può essere arricchita con la metafora dell’innesto. Con il Battesimo siamo stati innestati in Gesù, perché la vita divina presente in lui giungesse a noi. Le sue ferite sono i tagli per l’innesto, la sua incarnazione la condizione perché questo avvenisse: infatti non è possibile innestare piante troppo differenti, ed è inutile con piante uguali. Gesù, che è Dio, si è fatto uomo per essere simili a noi, portando in questo mondo la vita divina che noi, uomini, non avevamo; grazie alla sua passione siamo stati innestati in Lui e viviamo della sua vita di Figlio, compiendo le sue stesse opere, anzi portando a più ricca maturazione la sua opera di Figlio di Dio nel mondo (cf Gv 14,12).
Tuttavia l’innesto, compiuto perfetto dal divino agricoltore che è il Padre, che vuole la salvezza di tutti, a volte rischia di rompersi; le radici traggono dall’acqua vitale la vita, ma nel tronco dove scorre la linfa talvolta avvengono delle ostruzioni che le impediscono di passare, così che le foglie, le virtù, seccano e cadono, i rami si isteriliscono e non danno frutti, e tutto l’albero innestato rischia di cadere dal tronco di cui vive; questo accade per i peccati personali, che se non hanno l’efficacia di divellere le radici come era con il peccato originale, possono tuttavia impedire la piena efficacia della comunicazione vitale, fino alla morte. Per questo ci è dato un altro sacramento, il sacramento della Riconciliazione, che rende di nuovo puro l’innesto così che la linfa vitale passi: con il sacramento della Riconciliazione attingiamo di nuovo alle ferite del Crocifisso su cui siamo innestati, penetriamo di nuovo con maggiore slancio nella sua intimità. Un vecchio canto del cantautore cristiano don Giosy Cento può aiutarci a meditare questa grazia con cui l’albero ritrova la sua bellezza e vitalità:
Scusa, Signore, se bussiamo
alle porte del tuo cuore siamo noi.
Scusa, Signore, se chiediamo,
mendicanti dell'amore,
un ristoro da Te…
Così la foglia quando è stanca cade giù…
Ma poi la terra ha una vita sempre in più…
Così la gente quando è stanca vuole Te…
Tu, Signore, hai una vita sempre in più, sempre in più!
…
Scusa, Signore, quando usciamo
dalla strada del tuo amore siamo noi.
Scusa, Signore, se ci vedi
solo all'ora del perdono
ritornare da Te…
Nella catechesi sull’Eucaristia il tema dell’albero della vita può essere sfruttato ampiamente. Stavolta noi ci cogliamo come i fruitori di del cibo di vita, il corpo del Signore che ci proviene dall’albero che è Maria nell’incarnazione, maturato e donato sull’albero della croce per essere davvero pane spezzato e vino versato . In Cristo ci è rivolto l’invito a mangiare del frutto della vita; esso non è più impedito dal cherubino e dalla spada di fuoco, ma quella spada ha ferito Cristo nella sua passione per essere pane cotto al fuoco della sofferenza e dello Spirito per noi. Il cherubino, custode dell’arca, ci lascia passare perché noi stessi siamo arca di alleanza, se abbiamo in noi la vita del Figlio ricevuta nel Battesimo e praticata nei comandamenti, le cui tavole erano conservate nell’Arca. Poiché siamo viventi per la grazia del Battesimo, siamo invitati a mangiare il frutto dell’albero della vita, perché quella vita stessa sia alimentata e resa attuale. La veste bianca con cui in genere ci si accosta per la prima volta all’Eucaristia è memoria di questo legame battesimale, in attesa che, un giorno chissà quando, potrà diventare memoria spirituale e si possa andare alla prima partecipazione eucaristica con l’abito della festa di ogni giorno, perché l’Eucaristia non è cibo eccezionale, ma pane sovrasostanziale e quotidiano (cf Mt 6,11gr./ Lc 11,3) , e questo perché quello, frutto della croce che vivifica la vita quotidiana come ci ha descritto il mosaico di san Clemente a Roma di cui si è detto sopra, pane di vita nuova sempre rinnovata, nuovo frutto dell’albero di vita, come canta un canto del compositore Marco Frisina:
Pane di vita nuova
vero cibo dato agli uomini,
nutrimento che sostiene il mondo,
dono splendido di grazia.
Tu sei sublime frutto
di quell'albero di vita
che Adamo non potè toccare:
ora è in Cristo a noi donato.
Pane della vita,
sangue di salvezza,
vero corpo, vera bevanda
cibo di grazia per il mondo.
…………………………….
Vino che ci dà gioia,
che riscalda il nostro cuore,
sei per noi il prezioso frutto
della vigna del Signore.
Dalla vite ai tralci
scorre la vitale linfa
che ci dona la vita divina,
scorre il sangue dell'amore.
Rimando a quanto detto nella sezione sui Padri della Chiesa e gli autori spirituali, da cui si possono trarre ancora spunti ed immagini per la catechesi, anche tramite le opere d’arte, metodo che può essere validamente usato anche in incontri con i genitori e gli adulti in genere, magari in occasioni di gite ed altri eventi. Già qualche anno fa avevo proposto alla pastorale catechistica una visita alla chiesa di san Domenico a Castelvetrano, magari in preparazione al Natale, dove è raffigurato l’albero di Jesse da cui fiorisce la Vergine Madre che dona il Bambino . Altri luoghi si possono visitare, ricchi di arte cristiana che non è mai solo descrittiva ma sempre intimamente simbolica, o condurre in un viaggio virtuale tramite immagini variamente riprodotte.
Dall’Eucarestia si consolida la vita nuova nel credente: essa è fatta di azioni di carità, supportate da una mentalità non conforme a quella del mondo, ma a quella di Dio, che vuole il bene di tutti ed invita coloro che condividono il pane spezzato a condividere la vita per amore. Specialmente nella catechesi degli adolescenti in preparazione alla Cresima, e negli incontri con adulti, l’immagine dell’albero di vita parla di primavera. Se l’albero non si apre, producendo dalla linfa vitale che lo abita germogli nuovi che diventeranno frutti, esso muore in se stesso e quella vita che ha dentro soffoca. Il rischio della carità è quello che fa della vita del mondo una costante primavera (cf PP 3.1, pp.24-28); la conoscenza, e, possibilmente, l’esperienza del volontariato proposta dal nostro PP aiuteranno i nostri ragazzi a capire come la vita nuova battesimale, alimentata e resa attuale dalla comunione eucaristica, vinto ogni impedimento grazie al sacramento della Riconciliazione, entra nel tessuto concreto e lo cambia, dandogli sempre più un volto di luogo di vita; i cristiani, alberi di vita innestati nella vita trinitaria, lavorano attivamente per fare di questo mondo il giardino di Dio, casa di comunione e di vita per tutti. In questa prospettiva un compito ineludibile ed urgente è combattere tutti i veleni di morte che la comunicazione mediatica istilla, a cominciare dal pregiudizio assoluto verso gli immigrati. Non possiamo tacere davanti alla macchina di inganno e seduzione messa in atto su questo tema da forze alla ricerca di creare paure per presentarsi poi come salvatori indispensabili, men che mai possiamo diventarne complici e lasciarci assuefare, ma con senso critico, con illuminata concretezza e con l’audacia della carità che fruttifica dall’albero della croce dobbiamo indicare, a coloro cui annunciamo il vangelo della vita e dell’amore, il valore dell’accoglienza, il valore di ogni persona umana che ha diritto ad una vita dignitosa, sicura e circondata da stima, rispetto ed empatia fino alla fraternità di cui i cristiani, figli perché fratelli, sono maestri. Frutto unico, ma dai molti sapori, dello Spirito Santo che fruttifica per la grazia dello Spirito stesso, donato fin dal Battesimo ed in maniera piena, personale ed efficace nella Cresima, è l’amore, la magnanimità e la benevolenza, mancando i quali è segno che lo Spirito, pur presente, è stato impedito dal peccato di nuovo accolto, di dare il suo frutto necessario.
In preparazione alla Cresima, usando l’immagine dell’albero della vita, sarebbe da sviluppare il senso e la presenza dei frutti dello Spirito (cf Gal 5,22); si potrebbero invitare i ragazzi, dopo aver presentato il senso dei vari aspetti del frutto dello Spirito, a viverne concretamente qualcuno nelle settimane che precedono la celebrazione del sacramento. Il ritiro che molte parrocchie sono solite offrire ai cresimandi in prossimità della celebrazione della Confermazione potrebbe avere questo tema, magari, previo accordo con il proprietario, recandosi in un frutteto in cui si possano cogliere e gustare i frutti, o si possa esercitare qualche attività di cura agricola che permetta all’albero di fruttificare più rigogliosamente.
Un luogo dove il frutto dello Spirito risplende in tutta la sua bellezza e fa gustare la sua dolcezza è la vita dei santi; di essi si può dire come del frutto dell’albero paradisiaco che sono “belli a vedersi, dolci a farne l’esperienza ed utili per acquistare conoscenza del bene da fare e del male da evitare” (cf Gn 3,6); tramite la loro esperienza si può offrire l’immagine di una vita cristiana davvero compiuta, una vita vivente della vita di Dio. “I santi manifestano l’inesauribile volto amoroso di Dio….il santo..si è lasciato condurre dalla divina misericordia….che lo generava alla vita piena in Cristo, ricca di opere e di frutti soprannaturali” (PP, p.31) .
Le vite dei santi possono diventare un’affascinante catechesi; ricordiamo l’esperienza di conversione di Ignazio di Loyola che, ferito in battaglia, durante la convalescenza si trovò a leggere alcune agiografie e si infiammò per il buon combattimento spirituale tanto da arruolarsi nell’esercito di Cristo per le imprese della santità a maggior gloria di Dio. In vari modi possiamo proporre gli esempi di santità durante la catechesi, illustrando il tema trattato con l’ esperienza di qualche santo che ha particolare attinenza con esso, per esempio il già citato Ignazio, mostrando come un talento, il coraggio e l’ardimento, speso male per le guerre di queste mondo, diventa prezioso se è usato bene per il combattimento per Dio. Un’altra bella iniziativa potrebbe essere quella di affidare all’inizio dell’anno, o in prossimità della celebrazione di un sacramento, ad ogni ragazzo un santo guida da conoscere, invocare, imitare. Ancora tutto il gruppo, od anche tutti i gruppi della catechesi parrocchiali, potrebbe scegliere un santo di riferimento, la cui immagine tenere nella stanza del catechismo, raccontando qualche episodio della sua vita all’inizio di ogni incontro, o con altra cadenza temporale, recandosi magari, dove fosse possibile, in pellegrinaggio in una chiesa dove si venera una sua immagine o dove se ne cura particolarmente il culto. Potrebbe essere molto proficuo e coinvolgente anche realizzare una drammatizzazione sulla vita di un santo, da proporre anche ai genitori ed a tutta la comunità parrocchiale. In particolare mi sentirei di indicare, con molta libertà, per quest’anno due figure. San Vito martire porta nel suo nome un riferimento alla vita, tema del nostro PP, e presenta aspetti che possono interessare specialmente i preadolescenti, come il confronto con il genitore che ha una visione diversa della vita, le lusinghe della sessualità e della carriera, il viaggio con la partenza notturna verso l’ignoto, la chiamata ad evangelizzare ed il coraggio del martirio.
Un’altra esperienza di santità che potrebbe accompagnare la riflessione sulla vita è quella del beato Charles de Foucauld. Anche la sua storia presenta tratti avventurosi ed affascinanti, la spedizione militare nel nord Africa, la vita brillante a Parigi e la conversione, il ritorno nel Marocco ed Algeria ma come portatore di Dio. Tuttavia il tratto da mettere in evidenza, alla luce del nostro PP, è la santità quotidiana che fr. Charles propone, trovando il suo ideale nella vita nascosta di Gesù a Nazareth. Lì Gesù non fa niente di straordinario, vive tra i suoi concittadini, con la sua famiglia, lavora per vivere come ogni operaio….eppure la sua presenza santifica, come quella di De Foucauld tra i tuareg musulmani, dove non poteva predicare, né celebrare sacramenti; dove non costruì grandi opere sociali, né compì, in vita, miracoli o sperimentò fenomeni straordinari; semplicemente visse da fratello universale portando Gesù dove non c’era, con la sua messa solitaria, con la prolungata adorazione eucaristica, con la carità quotidiana verso i suoi vicini e i viandanti di passaggio nella sua oasi nel deserto. Charles De Foucauld è un santo per il nostro tempo, in cui le grandi opere creano sospetto, la predicazione sembra già sentita, solo l’immergerci nel mistero di Dio e farlo irradiare in tutta la vita quotidiana può forse ancora contagiare il mondo della presenza del Signore.
3. Il libro dell’ Apocalisse: un libro per ragazzi?
Il PP pastorale ci indica come libro biblico da leggere e meditare in quest’anno, il libro dell’Apocalisse che annuncia la vittoria definitiva e piena della vita del Signore risorto su tutte le forze che ostinatamente, ma invano, cercano di ostacolarla. L’ultimo libro biblico gode della fama immeritata di testo tragico, pauroso, catastrofico; esso invece testimonia, con sano realismo, la condizione difficile del mondo, e della vita del credente in esso, ma con ancor più forza e verità profetica annuncia la vittoria di Dio, il trionfo della vita. L’Apocalisse è il libro della speranza cristiana, dell’ottimismo che non ha paura di confrontarsi con la realtà perché sa della realtà della grazia operante e trasformante. In questo tempo di incertezze e di paure, di persecuzione contro i cristiani in varie forme, è libro di assoluta attualità per consolare i credenti di oggi come confortò quelli schiacciati dal potere dell’impero romano che sembrava invincibile. Ma forse nessun catechista oserebbe proporre l’Apocalisse ai suoi ragazzi: si potrebbero turbare, spaventare….. Mentre con i film ed i videogiochi che hanno tra le mani….!! Io invece ardisco proporvi l’Apocalisse come libro per ragazzi, per i nostri ragazzi accompagnati dalla catechesi, ed invitarvi a leggerlo con loro, con l’avvertenza, mutatis mutandis, che compare per certi film: da leggere con la presenza di un adulto, magari un catechista ben preparato, che ha fatto la sua buona lectio del brano che proporrà ai ragazzi. Allora avanti, senza paura!
Vi propongo alcuni contesti in cui ritengo possibile leggere Apocalisse con i ragazzi. Parola di Dio che illumina l’esame di coscienza in una celebrazione penitenziale potrebbe essere il settenario delle lettere che apre il libro profetico del Nuovo Testamento, Ap 2-3. Magari non usando le immagini più forti, ma evidenziando i richiami al cambiamento che spesso partono dal costatare che qualcosa di buono è già stato compiuto. Sarebbe suggestivo usare la forma della lettera. “Al gruppo dei ragazzi della parrocchia x scrivi: così dice….” O ancora più personalizzando: “Ad Andrea…a Mariella dice Colui che…..”. Nelle intestazioni delle lettere, che descrivono il mittente, e nei premi promessi alla fine di esse si può rinvenire un tesoro di immagini e simboli che possono diventare oggetti e segni da utilizzare nel costruire la celebrazione penitenziale. O ancora perché non strutturare una bella adorazione eucaristica secondo il modello dell’adorazione celeste all’Agnello immolato e vivente, descritta in Ap 4-5. 8,2-5. Così Ap 7 può servire per una catechesi sulla veste bianca battesimale e sul popolo di Dio raccolto da ogni parte per la passione di Gesù, mentre Ap 6,1-8 collegato con Ap 19, 11-16 per annunciare che Gesù è il vincitore su tutto ciò che fa paura. Una vecchia canzone di Angelo Branduardi, tratta dalla colonna sonora del film “State buoni se potete” può far cantare il senso di questi brani, “Capitan Gesù” (magari cambiando qualche parola, comprensibile nel contesto del film, ambientato nel 1500, ma dissonante per la nostra sensibilità odierna):
Capitan Gesù, non stà lassù,
lui stà quaggiù con la bandiera in mano.
Sempre quaggiù, con la bandiera in mano,
Gesù, mio capitano!
Comanda Santi e fanti
e coglie tutti quanti gli diavoli in flagrante,
Gesù, mio comandante!
Capitan Gesù, non stà lassù,
stà quaggiù a battagliar col male.
Sempre quaggiù a battagliar col male,
Gesù, mio generale!
Lui caccia dalla tana la feccia luterana
e il popolo giudio
Gesù è il maresciallo mio!
(Lui viene sulla terra e vince ogni guerra,
perché viene da Dio,
Gesù è il maresciallo mio)
Infine i capitoli finali del libro, Ap 21-22 possono servire per una catechesi sulla fine, e sul fine, del mondo presentando la realtà di gioia e di gloria in cui si compirà la vita di ognuno, e del mondo intero, alla fine dei tempi.
In copertina: Keith Haring, L’albero della vita ( 1984 ). Questa versione contemporanea dell’albero della vita esprime forte vitalità: l’albero è germogliato di persone viventi,
un albero che sembra danzare di gioia!