SAN NICCOLO' MAGNO

Unità Pastorale Campobello di Mazara
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SAN NICCOLO' MAGNO

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Pubblicato da Don Nicola Patti in Lettere del Parroco · Sabato 07 Dic 2019
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6 DICEMBRE
SAN NICCOLO' MAGNO
Nel descrivere brevemente la vita di san Niccolò Magno io sento corrermi al cuore una speziale dolcezza, qual suol essere quella di figliuolo che parla delle glorie del padre. Perchè questo gran lume della chiesa fu de primi, anzi primo, che in barbarissimi tempi si prese cura degli studi e della studiosa gioventù, e cessate le vanità del paganesimo diresse a miglior fine le fatiche degli ingegni, e per esempio insegnò che chi non cura gli studi non intende bene il debito di buon vescovo, e non serve ai veri vantaggi della chiesa del Signore, la quale può avere candelabri di legno, ma non ministri. Imperocchè la vera pietà onde si deriva quasi di propria fonte la civiltà, non può nè scaturire  è crescere nell'ignoranza; ma sì fra il lume della sapienza, pel quale come la grandezza di Dio, così i beni della civiltà più  splendidamente ed efficacemente si mostrano. Per la qual cosa con molta soddisfazione dell'animo mio ho tolto a dire del beato Niccolò, il quale anche per questo titolo debbe essere noverato fra i primi benefattori del genere umano, e vuò che queste mie parole valgano a mostrare la mia gratitudine, piccolo omaggio per sì gran beneficio; ma quel maggiore che io posso in tanta povertà d'ingegno, e reità di tempi offerire. E siccome della vita di lui poco con sicurezza si sa, abbenchè molto di lui sia stato scritto, nella narrazione mia mi terrò al poco sicuro, e lascerò il molto che non è abbastanza dalla critica confermato. La qual cosa vuò che sia saputa fin d'ora, perchè se alcuno maravigliasse che di molte cose mi passo, non debba anzi a me farne colpa di negligenza, ma perciò stesso darmi titolo di accurato e diligente. Chè io ho sempre riputato nelle cose sante solo il vero e il provato, l'altro non dovere aver luogo, avvisando che il poco certo più valga e faccia forza sull'animo, che il molto aggiunto o da non sincere tradizioni, o attinto da poco fondata osservazione, poichè alla lode di un santo basta dirlo santo; nè più oltre abbisogni, come abbiamo dal Grisostomo, il quale elogiando un martire, niuna cosa a questa lode volle aggiungere: l'ho detto
martire, ed il suo elogio è compiuto. Nè manco del prodigii, ond ebbe nome di taumaturgo, m'impiglierò molto, essendo anche mio scopo parlare delle opere, non dei prodigi, dei quali mi è assai dire che molti operò; sì che per molti che dalla tradizione a noi siano stati tramandati, penso che assai se ne potessero aggiungere. Ma impigliarsi di queste maraviglie è debito del panegirista: debito del biografo è parlare storicamente delle azioni e della vita. Volendo adunque, qual meglio posso, compiere il debito mio, dico che dalla redenzione erano decorsi degli anni dugento con ottanta, quando di nobilissima e ragguardevole famiglia nacque in Patara città illustre della Licia nell'Asia questo Niccolò, il quale al prezzo di preghiere implorarono da Dio i suoi genitori che furono Epifanio e Giovanna. E perchè era dono di Dio e frutto di preghiera, su cosa santa, e di codesta sua santità fin dal nascere diede segni non dubbi. Per egual modo il suo nome, il quale suona Vittoria della plebe, e che gli fu imposto per comando celeste, indicò fin dalle prime qual sarebbe aiutatore e difensore del popolo cristiano. Ma per parlare della sua santità è notevol cosa questa che io trovo scritta, cioè che bambino non volle mai gustar latte di nutrice più che una volta nel giorno di venerdì, quasi volesse tacendo con quella sua astinenza insegnare, che nel giorno in cui morì chi a noi diede la vita, non si debbe con altro cibo che dell'orazione la vita sostenere. V'è chi aggiunge aver egli ciò fatto anche nel mercoledì, dalla qual cosa alcuni scrittori inferiscono che egli fosse santificato nell'utero materno, e che volesse fin d'allora digiunare secondo il costume delle chiese d'oriente in quei due giorni; per dichiararne fin dal nascere, che debbe per tempo porsi in via, chi vuol pervenire a vera perfezione. Certo è che egli poi per tutta la vita questo santo costume del doppio digiuno rigorosamente mantenne. Ma per non fermarmi troppo sui primordi della vita sua, che furono non so qual più meravigliosi o santi, dirò che nella fanciullezza mostrò perfezione somma, e fu di tale innocenza, quale del Battista ci narrano essere stata. Non vi era virtù che non dico mostrasse aver messo il primo germoglio in lui, ma che già non si porgesse matura in fiore ed in frutto. La qual cosa faceva che tutti di lui si aspettavano, sarebbe quel grandissimo che poi fu, la stessa aspettazione superando coll'opere. Nè queste sue bontà andarono in giovinezza disgiunte dagli studi, perchè sappiamo che vi attese sempre e di forza; e negli anni dell'adolescenza si pose anche a studiar leggi, no per farne rete a raccorre il denaro del poveri, ma per difendere le cause dei miseri assaliti da quelle ingiustizie che sempre infestarono la vita civile dei popoli. Vero è che prima di venire a capo di questo studio, si volse a quello delle sacre lettere e della teologia, il quale meglio si confaceva alla sua vocazione, conciossiachè si sentisse chiamato a rendersi uomo di chiesa. E si rese infatto, e ricevè gli ordini primi da Niccolò suo zio materno che allora era vescovo di Mira: vecchio venerando e santissimo, che ben tosto conobbe e presenti ciò che del nipote sarebbe. Se fu senza macchia e perfetta la vita del giovane fin quì, immagini da sè chi legge quale divenisse allorchè entrò ai servigi della chiesa, e prese abito di cherico. Ed è agevol cosa l'immaginare sapendo come Niccolò ben conosceva essere necessaria anzi debita ai ministri del santuario non dico la bontà che è debito di tutti i cristiani, ma la perfezione della vita, dovendo essi essere candelabro che altrui dà luce: sale che conserva la terra, e la insapora per farla degna del cielo. Quanto a me ho per la migliore proseguir oltre al racconto, poichè per molto che io mi fermassi a dire, non direi tanto che bastasse. Accennerò nondimeno che non ci fu opera di carità ch' egli lasciasse da parte, e non di quella che a Dio solo riguarda, ma di quella che ai prossimi appartiene. Quantunque a vero dire l'una non può star senza l'altra, poichè per l'amore del prossimi si rinfuoca quello di Dio, e quello di Dio si perfezioma in quello del prossimi; cosicchè imperfetta sia, anzi non sia carità quella che ad una parte sola intende; cosa che avverto volentieri, perchè purtroppo nel mondo oggi si crede che l'una disgiunta dall'altra ci valga e basti. Niccolò fu nell'una e nell'altra caldissimo; e ben alla prova dei fatti lo diede a vedere; spezialmente nella durissima pestilenza che disertò a quei giorni la Licia, e nella quale egli perdè l'uno e l'altro suo genitore. Avrò detto tutto che si può a sua lode, quando recherò qui che quel gran santo che fu Carlo Borromeo, nel quinto concilio provinciale di Milano affermò, che Niccolò ebbe dati in quel tempo tutti gli esempli e i documenti che in tali miserie si possono desiderare; e invita tutti gli ecclesiastici a seguirne le vestigie, ed averlo come a specchio e maestro. Rimasto solo, senza genitori, poi che li ebbe pianti e confortati con quel soccorsi che all' anime dei trapassati meglio valgono, divenuto padrone di sè determinò darsi al Signore per intero, e visto che le ricchezze sono impaccio a chi voglia essere perfetto e vero ministro del Redentore, diede tutto l'aver suo ai poverelli. È nota, e in mille carte celebrata la larghezza che fece a tre donzelle, le quali correvano pericolo dell'onestà, perchè lor durissima povertà le costringeva a fare mercato delle proprie bellezze, e quel che peggio è, disperato amor di padre ve le consigliava. Ed egli recò a tutte tre ricca dote, con la quale si ebbero tostomarito, e ai mali lor ripararono, e fece per modo che sentirono il benefizio, il benefattore non conobbero. E le tre palle d'oro che nei tempi venuti appresso a piedi delle immagini del santo furono dipinte, ciò appunto significarono. Esempio bellissimo, e degno d'esser di sovente imitato! perchè se vi sarà chi spesso aggirandosi coll'occhio della carità per le case del popolo, ne penetri i secreti, saranno cessate quelle durissime necessità, le quali piegano a mal fare la maggior parte, e che sovente anime nate a bene, e capaci di nobili affetti, sospingono nella cloaca più sozza. Certamente l'umana società sarà meno insozzata di vizi, se quelli che la provvidenza e la religione ha posto a guardia e a custodia degli altri ritrarranno mai sempre da questo esempio di Niccolò, e sarà così tolta la mala ed invecchiata usanza di voler meglio punire i vizi che prevenirli. Ne più si acqueteranno gli uomini onesti e cristiani nel dare vil moneta a quel che chiedendo s'inchinano, ma si vorrà uno anche soccorrere a quelli che non chiedono e penano; perchè nella dura lotta della povertà e dell'onore non abbiano ad abbandonarsi dell'animo, e darsi vinti. E qui siami concesso dire che quando era men noto e decantato nel mondo codesto nome di filantropia, venuto in luogo di quella carità, che nata sulla croce di Cristo, di là colla croce discese a conforto degli uomini, le umane mi serie trovavano miglior ristoro, e sovente la ricchezza spontaneamente si spendeva tutta pei poveri, e senza quelle istituzioni filantropiche che nel più sono nate da freddo calcolo, e spesso più giovano a chi soccorre, che a quelli che son sovvenuti, la comunione dei fedeli ristretti in unità di voleri e di credenze dalla religione di Cristo era siffatta, che colui più aveva che meno aveva; e tante volte si vedevano i poveri vivere senza bisogni, i ricchi cercare volontaria povertà. E così per sola opera di codesta, oggi sbandeggiata cristiana carità, si commutavano le sorti umane, e mentre spogliandosi delle ricchezze i seguaci di Cristo cercavano perfezione, i poverelli nelle stesse fortune dei ricchi trovavano conforti e consolazione. Ma oggi che più delle apparenze, che del vero siam vaghi, e più i nomi che le cose stesse pregiamo, in luogo della vera carità, mi pare entrato un commercio, una mercatura, per la quale non ha merito chi la fa, nè gran bene chi vi si abbandona. Benchè qui protesto, che non intendo io dar biasimo alle buone istituzioni che tendono a migliorare la società civile, ma sì a quelle vanitose, le quali ove più sono, sono anche maggiori e più detestabili i mali. Perchè non dubiterò affermare che gran male è tutto voler reggere colla freddezza del calcolo, e così attutare ogni religioso affetto, e chiudere la porta agli sforzi generosi e magnanimi di cui sono sempre operatrici la religione e la carità. Ma tempo è che mi ritorni al filo della mia narrazione, e dica come Niccolò peregrinando si recò a luoghi santificati dalla presenza e dal sangue di Gesù Cristo, sebbene perchè possa toccare di codesto suo peregrinaggio, non ispero poter degnamente parlare de' suoi santi affetti: poichè per parlare degnamente converrebbe con egual forza sentirli, e per sentirli, converrebbe al tutto esser Santo. Avrò peraltro interamente spiegato il mio concetto se affermerò, che non avrebbe più voluto staccarsi di là, e avrebbe desiderato lasciar la vita ivi stesso ove il suo Signore si era lasciato morire. Nella navigazione operò un singolare prodigio, e fu di cessare una fortunosa tempesta che minacciava inevitabile naufragio. La qual cosa seppe di maggior maraviglia, perchè prima l'ebbe predetta, quando il cielo e il mare parevano ridere nella più sicura tranquillità. E di questo gli venne gran nome di santo; sebbene anche senza questo come santo per l'opere sue era riverito. Tornatosi a Mira, trovò che lo zio suo era di questa vita passato, e dai vescovi si teneva consiglio per eleggergli un successore. Tutto il popolo se ne andava in preghiere; perchè ben sapeva alla prova del fatti che non vi ha maggior bene che vivere sotto il governo di un santo, maggior male che avere un lupo in veste di pastore. Unissi, e come no ? anche Niccolò a pregare col popolo, e Iddio ne esaudì la preghiera: perchè mise in cuore degli elettori con una segreta ispirazione, che si dovesse eleggere colui, il quale il dì appresso al primo far del giorno fosse trovato alle porte del tempio; e avesse a nome Niccolò Iddio così lo chiamava al seggio, ove chi siede debb'essere irreprensibile. La mattina vegnente infatto al primo imbiancarsi del cielo fu trovato Niccolò genuflesso alle porte della chiesa; e tutti si convennero nel sollevarlo alla dignità episcopale, ancorch'egli dicendosi e protestandosi peccatore si rifiutasse. Non appena era salito alla dignità episcopale che cercò modo di porgersi altrui esempio, e ne reissimi tempi che correvano giovare ai fedeli e alla chiesa. Quindi prima opera sua fu adunare il concilio provinciale, e a tutti gli ecclesiastici porre sante ed opportune leggi; mette o nei petti loro la costanza nella fede, la modestia, l'umiltà, e soprattutto la carità del prossimo. Ricchi di fede e di opere sante, non dei beni del mondo, dessero di sè esempio agli altri: andassero in traccia dei peccatori: li pregassero a convertirsi: se non bastassero le preghiere e le persuasioni, si gittassero alle ginocchia loro scongiurandoli colle lagrime a non voler perdere sè stessi: non cessassero fatica, ponessero la vita a prò delle anime. Delle cose secolari non s'impigliassero: la sola carità col resto degli uomini li restringesse. E delle cose che a suoi ecclesiastici comandava porgeva in sè stesso l'esempio. Andava nel più umile modo a visitare la diocesi, e senz'ira, senza minacce alla mano, toglieva i mali dell'abuso; e recavasi sulle spalle, non perseguiva colla sferza le pecorelle infette; riconduceva alla diritta via le traviate, non le lasciava in balìa di sè perire; e così ritraeva in sè ciò che l'apostolo inscgnò: cioè che i vescovi dovessero essere esempio ai fedeli nelle parole, nella conversazione e nella fede e nella castità e ne costumi. E quando la rabbia di Licinio imperatore imperversò contro i cristiani, egli si fece loro rocca e difesa; conciossiacchè contro i potenti che minacciano il popolo, la parola e l'autorità dei vescovi debba essere scudo; come la voce e la verga dei pastori è scorta e difesa del gregge. Ad orfani, a vedove, a poverelli di ogni guisa non venne meno giammai, e la sua carità si stese fino a riscattare que miseri che erano caduti nella schiavitù degl'infedeli: della qual cosa ci rende fede Adeodato, che da lui fu riscattato e restituito al padre. Vegliava con zelo alla custodia della gioventù, salvò tre giovanetti che recavansi a studiare in Atene, i quali o scampò da morte, o a vita restituì. Il culto degli idoli distrusse, e adoperò che quel tempio d'Apollo Patareo, a cui tutti i primi dell'Asia ogni anno facevano offerte dei frutti dell'ingegno loro, fosse consacrato al vero Iddio, e a lui solo tali primizie si offrissero. E di qua forse gli venne il titolo di protettor degli studi e degli stu– diosi, che ancor gli rimane –-. Difese tre tribuni calunniati presso Costantino, e li sottrasse alla scure, rimproverando per lettere l'imperatore di quel suo correre a punire prima di conoscere il vero; e Costantino gli rispose con domandargli perdono. Nel primo concilio di Nicea si mostrò caldo dello zelo di Dio, e contro Ario si volse, e le sue bestemmie non sostenne; ma una coi vescovi ivi congregati al numero di trecento diciotto, l'ariana eresia condannò. Di lui in somma poteva dirsi ciò che Paolo diceva di sè, che nè cielo, nè terra, nè povertà, nè ricchezze, nè altezza di stato, nè fondo di miseria, nè norte, nè esiglio, bastavano a dividerlo dalla carità di Cristo. E infatto quando il furore dell'imperator Licinio, o come altri vuole Diocleziano, lo fece caricare di catene, imprigionare, esigliare; egli i ceppi, la prigionia, l'esiglio accettò come grazie del Signore, e parevagli bello porre la vita stessa in onore di lui e in salvezza del popolo a lui affidato. E quì mi piace di pregare la superna provvidenza, acciocchè non permetta che nel mondo vengano mai meno tali pastori dell'anime, ma a larga mano ne doni alla terra, perchè dalla bontà e dall'esempio loro la gloria del cristianesimo, la felicità dei popoli dipende. Non sia l'età civile più sventurata delle barbare, le quali nei santi vescovi ebbero tanti angeli tutelari della chiesa e delle genti. E come il grande arcivescovo di Milano san Carlo si faceva specchio di Niccolò, e da lui ritraeva emulandolo nella castità de costumi, nella assiduità all'orazione, nelle prolungate vigilie, nei digiuni, nella liberalità sino a spogliarsi di tutto, nell'ospitalità aprendo le porte ai fedeli e imbandendo la propria mensa ai poveri, nella mansuetudine abbracciando gli offensori e scampando loro la vita; così altri pur molti imitatori in ogni tempo si abbia. Allora sarà felice il mondo, quando saranno santi tutti i vescovi: e lo saranno al certo ove si diano all'imitazione del grande vescovo di Mira, il quale dopo durate tante fatiche, carico di meriti più che di anni, rese l'anima al Signore, pronunziando le parole del salmo: Signore ho sperato in te, non sarò confuso in eterno, con quel che segue sino al versetto: Io metto nelle tue mani l'anima mia, alle quali parole spirò. Ebbe onorevoli esequie e sepoltura in Mira, onde molti anni appresso fu tolto il sacro suo corpo, e trasportato a Bari, ove anche oggi si venera; e tutta la cristianità accorre a domandare e ricevere grazie. A chi volesse pur dire in parte dei miracoli quivi operati si metterebbe in tale pelago da non escirne per poco: però io me ne passo, accennando solo che dalle sacre ossa del santo scaturisce un umore, che fu detto manna, perchè egli è medicina a tutti i mali per chi si reca con sede ad attingerne.
(DEL PROF. GIUSEPPE IGNAZIO MONTANARI)


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